È morto dopo giorni di agonia all’ospedale di Afragola l’operaio di 42 anni rimasto gravemente ferito in un incidente sul lavoro avvenuto la scorsa settimana in un cantiere edile di Scampia. La caduta da diversi metri d’altezza, durante le operazioni di montaggio di un ponteggio, non gli aveva lasciato scampo. Nonostante l’immediato intervento dei colleghi e l’arrivo dei soccorsi, le sue condizioni erano apparse fin da subito disperate. Oggi la notizia della morte riaccende il dolore della famiglia e, al tempo stesso, la rabbia di un’intera comunità stanca di piangere lavoratori che muoiono per la mancanza di sicurezza. Quella dell’operaio di Scampia è solo l’ultima di una lunga serie di tragedie che si consumano nel silenzio e nell’indifferenza generale. Si parla di fatalità, di “incidenti”, ma la verità è che queste morti non sono mai davvero casuali. Sono il risultato di un sistema che troppo spesso mette il profitto prima delle persone, che risparmia su formazione, controlli e dispositivi di sicurezza, e che lascia migliaia di lavoratori esposti ogni giorno al rischio di non tornare a casa. Secondo i primi rilievi, l’uomo stava lavorando su un’impalcatura priva delle adeguate protezioni laterali. Nessun imbracatura, nessuna rete di sicurezza: solo l’esperienza e la speranza che bastino a salvarti la vita. Ma l’esperienza non basta quando la sicurezza è affidata al caso. I colleghi raccontano che il ponteggio era stato montato in fretta, per rispettare i tempi imposti dal committente, e che più volte avevano segnalato situazioni di pericolo senza ottenere risposte concrete. È un copione che si ripete, da Nord a Sud, nei cantieri, nelle fabbriche, nei magazzini. Ogni volta con le stesse parole, le stesse scuse, lo stesso dolore. Le indagini della Procura di Napoli Nord dovranno ora chiarire le responsabilità: si ipotizza il reato di omicidio colposo, e sotto la lente degli inquirenti sono finiti il titolare dell’impresa e il responsabile della sicurezza del cantiere. Ma oltre ai singoli nomi, il problema è più grande e riguarda un intero sistema che continua a considerare la sicurezza come un costo, anziché come un investimento. I dati parlano chiaro: ogni anno in Italia più di mille persone perdono la vita sul lavoro, una media di tre al giorno. È come se ogni giorno un piccolo incidente cancellasse la vita, la dignità e il futuro di qualcuno che voleva solo guadagnarsi da vivere onestamente. In Campania, il fenomeno è particolarmente grave. L’alto tasso di lavoro nero e la carenza di controlli ispettivi rendono i cantieri un terreno fertile per l’irregolarità e la superficialità. In molti casi, gli operai non hanno un contratto, non ricevono formazione, e spesso vengono spinti ad accettare condizioni di rischio pur di non perdere il posto. “Non doveva morire così – dice con le lacrime agli occhi un collega della vittima – era un padre di famiglia, lavorava da più di vent’anni nei cantieri, ma nonostante l’esperienza, se ti fanno salire senza protezioni, non puoi difenderti”. Le parole dell’uomo riassumono la verità più amara: la sicurezza, in Italia, resta un privilegio di pochi. Serve una scossa, una presa di coscienza collettiva, un impegno politico e sociale che metta finalmente la vita dei lavoratori al centro. Non bastano i minuti di silenzio, le commemorazioni o le frasi di circostanza. Servono controlli veri, sanzioni severe per chi non rispetta le norme, incentivi per le imprese che investono in sicurezza, e soprattutto un cambio culturale. Perché la sicurezza non è burocrazia: è rispetto della vita umana. In attesa che la magistratura faccia il suo corso, resta il vuoto lasciato da un uomo che non tornerà più a casa, da una moglie che lo attendeva per cena, da figli che non potranno più abbracciarlo. Il suo nome, come quello di tanti altri, rischia di finire in una lista di numeri, ma dietro ogni numero c’è una storia, un sogno, una famiglia. E ogni morte sul lavoro è una sconfitta per lo Stato, per la società e per ciascuno di noi. La sua storia ci ricorda che la vera emergenza non è la lentezza dei cantieri, ma l’assenza di sicurezza. Finché non ci sarà una svolta reale, continueremo a piangere lavoratori onesti e invisibili, vittime di un Paese che dice di tutelarli ma che troppo spesso li lascia soli davanti al rischio.









