“Per S. Martino ogni mosto diventa vino”, recita l’adagio popolare. Come afferma anche la nota lirica (omonimo il titolo) del Carducci. Proprio il vino, oltre che il dolce “vin cotto” (leccornia di questo mese autunnale), caratterizza novembre. Ma poi tutto “corre” verso il Natale, come sembra accadere – una volta superato il mese di settembre. Dopo Halloween, è già periodo prenatalizio. Tornando a questi giorni di novembre, ecco che – nelle nostre realtà locali, particolarmente in Campania; nella provincia di Salerno e nella Valle Irno (Mercato San Severino) – si cominciano a degustare prodotti “iconici”. Come il cachi o loto – da una parola greca, a significare il “dimenticarsi”. Come afferma anche Dante, ponendo sulla montagna del “suo” Purgatorio il fiume Lete – immergendosi nel quale le anime scordavano le proprie colpe. Il loto, nelle zone meridionali, è spesso denominato “legnasanto”. Ad indicare che la sua maturazione avviene per Ognissanti, il primo di questo mese. Anche se – oggigiorno – le coltivazioni intensive permettono di assaporare beni alimentari (una volta definiti: “di stagione”) lungo tutto lo svolgersi dell’anno. Su questo, si accettano commenti e pareri/opinioni – dalle “pagine” di questo quotidiano. A S. Martino, invece (proprio l’11 di novembre), gli innamorati della Valle dell’Irno e del Sanseverinese si scambiano il torrone. Leccornia di tutta la Campania – ed anche di altre aree del Mezzogiorno d’Italia – ma soprattutto del comprensorio beneventano (ove è tipico anche il classico e rinomato liquore Strega) e dell’Avellinese. Citiamo i borghi di Dentecane e Venticano (Avellino) e di San Marco dei Cavoti (Benevento), dove il torrone “è di casa”. Artigianale. Come lo era ed è – tuttora – in Sicilia, grazie all’abbondanza di mandorle; pistacchi (nell’amena Bronte!); arance (perché farle giungere da Paesi terzi – quando abbiamo, in patria, il magnifico “giardino delle Esperidi”, ricco di frutti succulenti? Anche su tale argomento s’accettano spunti di riflessione e di discussione…). A Mercato San Severino il torrone – detto anche “Cupeta” (in dialetto – dal Latino “Cubaita”, forse a causa della sua forma squadrata; in origine) – viene regalato alla sposa dal capofamiglia.
Si tratta delle “Ossa di morto”, ovverosia il torrone stesso. Così chiamato in onore del mese “dedicato” ai cari defunti. Perché proprio a San Martino, ovvero l’11 di novembre? È presto detto: il dolce – già conosciuto presso i Greci e i Romani, preparato – originariamente – col miele verace (o sincero, “sine cera”: puro!) – era simbolo di affetto. In ricordo, anche, della leggenda che vede il santo molto “geloso” della sorella. La sorella non rigava dritto, secondo la tradizione. Così, il soldato romano e vescovo di Tours Martino (sacro a Marte, per i Romani, è l’etimo) se la portava ogni volta dietro. Un giorno, il santo si distrasse – e la sorella poté amoreggiare in libertà con lo spasimante. Da questo episodio etnografico e antropologico nasce la diceria che S. Martino sia “patrono” degli uomini traditi: i “cornuti”. Da questa curiosità deriva anche il detto: “Corna di sora (sorella) corna d’oro; corna di mogliera (moglie) corna vere”. Dal tradizionale dolce appena descritto, che si accompagna – tra novembre e il periodo del Natale – agli altrettanto dolci prodotti del biancomangiare e della cuccia (con l’accento sulla “i”) siciliani, passiamo ora ad annoverare i dolciumi del Settentrione.
Come il panettone e il pandoro – appunto “di moda” fino al mese di gennaio. Entrambi, in Inglese, vengono definiti – rispettivamente: “milanese cake” e “veronese cake”. Cake è il dolce, la torta – però non quella “alla Nonna Papera” – che si chiama “pie” (pasticcio. Apple pie è il pasticcio, con “ripieno”, di mele). Oltre a tali bontà, sempre parlando di squisitezze “zuccherate” o dolci settentrionali, ricordiamo il cioccolato. A Torino. Oltre che nella centrale Perugia – dove, da qualche tempo, si svolge l’Eurochocolate, con eventi quali “L’isola dei golosi” e tante “esperienze del gusto”, come diciamo adesso. Ricordiamo appena, comunque, il noto cioccolato di Modica – in Sicilia. Una specialità davvero unica e invidiata. Ma se dici cioccolatini – o meglio: gianduiotti – essi sono propri del Piemonte, nelle zone attorno a Torino. Come del Piemonte, in questo periodo autunnale ma non solo, citiamo l’aromatico e costoso tartufo. Ad Alba e dintorni. Il gianduiotto – dicevamo – è così chiamato dalla figura della Commedia dell’Arte: Gianduia. Nonché di un personaggio interpretato – qualche anno fa, in tv – dal comico Teo Teocoli: Gianduia Vettorello. La specificità del gianduia consiste nell’amalgama di nocciole: le deliziose “tonde gentili delle Langhe”. Ma anche nella meridionalissima Giffoni Valle Piana, in provincia di Salerno, una prelibatezza dop è la “tonda giffonese”. I cui cultivar si estendono per le aree dei monti Picentini e per i boschi nostrani. Ancora, ricordiamo – sempre in tema di cioccolatini; di praline – i Perugina. Creati dalla stilista Luisa Spagnoli. Che ha dato anche origine al cioccolato “Luisa”. Fondente, creato con avanzi di pasta di nocciole. La prima etichetta della celebre golosità, pubblicizzata da sempre, era “Cazzotto”. Poi il prodotto assunse il nome commerciale, il brand, la label, di “Bacio”. Fin qui per i dolci, accennando solo un attimo agli struffoli – retaggio forse longobardo – in Campania. E accennando pure ai Calzoncelli di Castagne.
In realtà, la cucina – e dunque il mercato – settentrionale non termina certo qui. Come non finisce qui anche per altri beni culinari in tutta Italia. Prossimamente, magari, parleremo dei vini, soprattutto lo spumante o quelli da dessert. Come il vin santo, il vin cotto eccetera. Sempre per ciò che concerne la stagione autunnale – questa presente – e andando verso l’inverno. Quando le bollicine italiane, in concorrenza con il perlage francese dello champagne, faranno a gara per avvincere i palati e le menti. Deliziando – con lo spumante d’Asti e con altri brand di pregio – gli appassionati di vini e liquori. Tante sono, fin dai tempi più antichi, le varietà di bevande italiane. In tutto il corso dell’anno solare. C’è l’imbarazzo della scelta, letteralmente: la fanno da padrona Chianti e Lacryma Cristi, barbera, aglianico (probabilmente da Ellenica – un tipo d’uva – oppure da un “sentore” d’aglio), greco di tufo, novello. E i liquorosi Marsala, Zibibbo, grappa, acquavite e via discorrendo. Per non tacere di liquori Limoncello, Meloncello, “Nanassino” – a base di fichi d’India – e Finocchietto, oppure Liquirizia. Volendo – poi – parlare di gastronomia “salata”, ecco – appunto – nel periodo attuale, ritrovare in tavola alimenti caldi. Spesso liquidi o cremosi. E vai con le zuppe e le minestre toscane – ad esempio l’arcinota ribollita, magari deposta nella crosta del pane – o, sempre per rimanere in Toscana (Livorno), la prelibata zuppa di pesce chiamata “cacciucco”. Ancora, il freddo brumoso di novembre e dicembre fa sì che si considerino i piatti fumanti. Ne sono un evidente esempio la Bagna Cauda piemontese e la Cassoeula lombarda. Quest’ultima, sostanzioso piatto unico a base di verza e di carne di maiale. Abbastanza simile – ma non troppo, poi – alla campana “minestra maritata”. Dall’hinterland napoletano e giù di lì. Piatto ricco, abbondante e calorico – con cicorie amare, cavolo nero, erbe montane, broccoli, cavoli “di Natale”. In connubio – donde il nome – con orecchie di maiale (o “recchie e puorco”) e guanciale – sempre del suino. Il “vuccularo”.
Parlando – ancora per un minuto – di cassoeula, ricordiamo soltanto che può contemplare (nell’etimologia del vocabolo) il significato di “mestolo”. Come fosse una “particolare” cazzuola. Da tale termine deriverebbe perfino il cognome Cazzullo. Di un celebre cronista contemporaneo. Che dire di più? Solo una cosa: buon appetito! In ogni regione italiana esiste una ricca gamma di piatti per tutti i gusti e – si spera – per tutte le tasche. Con ingredienti “poveri”, nel senso che si potevano trovare nelle cucine dei ceti meno abbienti. Ma sono od erano piatti squisiti, ricchi di gusto e di calorie. Sia di carne che, anche (lo vedremo prossimamente? Non si sa…) di pesce. Come attesta la cucina del baccalà – differente, in parte, dallo stoccafisso. In Campania vi sono diversi modi per cucinarlo: con patate, alla “carrettiera”, con i peperoni (“papacelle”) e le olive all’insalata eccetera. In Veneto, la versione più gradita e tradizionale è il baccalà alla vicentina. A Natale, sulle tavole meridionali è un tripudio di sapori di mare: fanno la loro bella figura spaghetti alle vongole o ai lupini, alle alici (in occasione dell’8 dicembre, l’Immacolata Concezione) e frittura di pesce. Accompagnati da broccoli e giardiniera – per alcuni chiamata “insalata di rinforzo”.
Infine, citiamo in questa nostra “lista” di bontà le “ciuciularie” o “spassatiempi” partenopei. Frutta secca, bruscolini, anacardi e noccioline americane. La tradizione degli ultimi mesi dell’anno contempla anche le lenticchie col cotechino o con lo zampone (Emiliano e/o romagnolo). Le lenticchie simboleggiano i soldi e la fortuna. Buona fortuna – allora, Italia!