LA DISTROFIA DEL SENTIMENTO E L’ELUSIONE DEL MONDO NELLA POESIA
INFORMALE DI MARIA TERESA LIUZZO
Di Paolo Arecchi ( Critico Letterario )
Dopo l’esperienza poetica di RADICI ( 1992 ) Maria Teresa Liuzzo si è ripresentata con PSICHE ( 1993 ) ancora della Jason Editrice di Reggio Calabria, con prefazione di Antonio Piromalli. La prima raccolta segna l’incontro – superamento con la tradizione, segnatamente con gli ultimi residui di un simbolismo di ascendenze pascoliane che registra le scogliere e gli anfratti dell’anima, legate allo scavo ellittico di tipo ermetico, in un’ansia di affrancamento stilistico e di ricognizione metaforica dell’esperienza spostata dalla scheggiata preistoria individuale a quella asettica del mondo contemporaneo. L’ ”oltranza della tecnica” ( Piromalli ), la distrofia sentimentale e stilistica già rinvenibili in quelle prime raccolte, hanno modo di dispiegarsi a tutto campo, i sentimenti sono sottoposti ad un vaglio rigoroso per sottrazione, emerge una frantumazione figurativa che, come dice ancora Piromalli, accompagna ”tensioni tra antico e nuovo”. La voce monologante scatta in ”generoso impeto lirico” ( Bigongiari ), colma di modulazioni sottili, intende il mondo come ”scritture cifrate” ( Jaspers ), come labirinto di segni, per sussulti e scosse, allarmi e soprese emozionali, slittamenti e deragliamenti, sovrabbondanze, elencazioni caotiche, forzature metaforiche, vampate sulfuree in una sorta di anomalia e slegatura sintattica di discontinuità semantica e di allucinata e sconcertante eccentricità nell’uso della sinestesia. Si tratta di un sensismo poliforme, magmatico, caleidoscopico, rutilante, attraversato e percorso da continue forze centrifughe, inappagate che elidono gli acidi corrosivi della memoria, della presa diretta delle cose. Regnano la tumescenza avvertita in un ”cocktail di colori”, il delirio linguistico, la fibrillazione gnoseologica, l’esasperazione realistica ed espressionistica in una microspia cupa dell’immaginario – visionario, una discesa agli inferi nella mente turbata dall’incombere delle morte, del nulla, del vuoto, del baratro, della depressione, dello scompiglio tentacolare, del buio, della fuga, della decomposizione vegetale e animale nell’incertezza del vissuto che regredisce a funzione biopsichica. ”Le folte radici / del presente” non si appagano e, fra integrati ed apocalittici (ne ha trattato Umberto Eco), la Liuzzo manipola il linguaggio senza perciò cedere ad impulsi ludici ed in senso lato sperimentali, si affida a squarci di paesaggio o a stravolti sortilegi mitici senza che essi abbiano più l’affabulante declinazione prosastica di Montale e la verticalità neobarocca di Ungaretti. La passione compressa ed implosiva, a tratti agonica e con venature cosmiche della poetessa cui fanno pensare ai tormenti greci di Saffo, a certi suoi scavi e risonanze. Il pessimismo è di stampo echileo per l’imprigionata scenografia, la cavernosità dolorosa. L’anima anela a estrinsecarsi e misura sciagure e battiti oscuri, è pervasa da entità fatali, minacciose. Nel sogno, come nella morte ”ardono memorie e cuore”, gli impulsi dell’io si scompongono, acuminata è l’esigenza di ”vivere attraverso il pensiero non l’azione” abbandonandosi alla trasversalità, alla elusione del mondo, cogliendolo nelle sue segmentazioni e nei suoi atroci conati. Come ha acutamente detto Giuseppe Amoroso, la poetessa sente disorientamento e stupefazione: da un lato è turbata dalla Babele della società attuale, dall’altro si ritrae di là dal fragore della storia revocando e per lo meno adombrando l’impegno civile vero e proprio, l’approccio alla cronaca, la confessione esplicita dei sentimenti pubblici e privati e il disagio e il male di vivere. Possiamo dire che la musicalità sbilanciata che in parte permeava Radici ora si rompe e velocemente si trasforma in dissonanze acerbe, l’emblematica ”psiche osserva (e patisce) la crescita della realtà (Piromalli) e la sua bruciante scomposizione in un quadro di parossismo neonichilista. E’ l’informale oltre l’inquieto fluire delle coscienze dubbiose che avevamo incontrato in S. Agostino, Montaigne, Pascal, e, fra i moderni James, Bergson, Proust. Lo scoscendimento cosmico è parallelo a quello metaforico, il paesaggio è a spezzoni e rifigge da avviluppanti idilli o malie con l’io che si apre e si chiude subitaneo. Non v’è nella Liuzzo un romanzo dell’anima, secondo l’impostazione neo-petrarchesca e neoromantica ipotizzata da Bigongiari, e cioè il suo non è un vero e proprio canzoniere moderno, né v’è in lei l’epica familiare de La camera da letto di Attilio Bertolucci o la tematica del colloquiale, del quotidiano, del restringimento minimalista del campo visivo, del racconto, né la sua poesia presenta registri, toni ed esiti manieristici secondo certe tendenze recenti. La storia della Neoavanguardia è finita come sono finiti gli usi riciclati del linguaggio novecentesco. In questo dissolversi e balbettìo linguistici urgono altre suggestioni compositive, altre e compatte strutturazioni che segnino il passaggio ad una poesia organica e concettuale. La poesia della Liuzzo mostra questo sforzo di penetrazione in un nuovo territorio. La sua alchimia verbale tramuta il disordine apparente in ordine sotterraneo nel rapporto già segnato ad inizio di secolo da Apollinaire tra l’Ordine, rovesciabile, o condivisibile, e l’Avventura. Oltre tutto, la sua è una poesia ferma, carica di pathos, attenta alla lezione leopardiana della protesta, specie quella de La ginestra, e forse anche all’extra poetico o all’apoetico attraverso una rete di accostamenti audaci che mettono a soqquadro il tradizionale respiro lirico e le pause che lo contraddistinguono.
Più di panteismo e panismo, come dice Isabella Lo Schiavo, si tratta di asettico colorismo serpeggiante, di brulichio vischioso di oscillazione delle forme, e giustamente Pasquino Crupi parla di ”uso insaziabile della metafora, cui si accompagna la tecnica della giusta opposizione, evidenziata da Amoroso, cui potremo aggiungere la tendenza anacolutica, l’uso larvato dell’ossimoro, l’assenza sintattica per desertificazione di coordinate e subordinate. La Liuzzo è sola ”nella lugubre foce del tormento”. La banalità dei messaggi dovuti ai mass- media la fa reagire. Ella si attiene al disagio generale, evita analisi scontate, anche se l’ultima parte del libro ha timbri parenetici e mostra di che amare lacrime e sangue grondi l’Ade contemporaneo, quali terribili gorghi ha lasciato la Notte ultraromantica. E’ insomma, il fosco mondo epocale che determina in lei il contromovimento lirico come ipotesi possibile di ricomposizione dei frantumi del reale in un prisma di accorate insorgenze aurorali e di fantasmi in lotta, di elezioni ambigue, di scintillamenti segreti che assegnano il suo lavoro all’area del Postmoderno sia per lo sfondo atonale, sia per certe istanze inconsce di psicosintesi e di simultaneità metamorfica degli aggregati mentali. Spazio, tempo, io subiscono uno stravolgimento circolarmente inclusivo ed elusivo, le ascisse e le coordinate del colore – se così possiamo definirle – entrano in contatto con l’intelligenza geometrica incline all’assurdo, e l’etico-gnome si fa risentire. Lo stile della Liuzzo è arbitrario ( tale è il segno linguistico per Ferdinand de Saussurre ), l’atonia vale per afasia, la sua tecnica più che a capostipiti italiani potrebbe essere riconducibile all’esuberanza cromatica, ai modi iperbolici, al fattografico, alle scosse telluriche del linguaggio, di Majakovskij, il rivoluzionario per eccellenza della poesia del novecento in Russia e in Europa, o al linguaggio erratico, trasmentale delle stratificazioni multiple di Cklebnikev utopicamente interessato a una lingua originaria, universale, magica. Nei suoi gettiti ininterrotti la poesia della Liuzzo, come precisa Vincenzo Paladino, ”hanno il pregio di essere scandite a fil di voce”. Ma chi potrà ”trattenere l’acqua / fuggitiva che insidia”? Chi tornare alle radici, appunto, alla psiche ”nell’emporio dell’inferno”, ridestando la volontà fortissima dell’Alfieri? Ritorna la speranza, ritornano le illusioni, la crisi epocale è superata? Finiti la catastrofe e il naufragio ”nell’età dell’obbrobrio? La forza morale della Liuzzo non si volge espressamente ad un segno di rinascita, ma si indovina in lei una ricucitura tra spasimi e sconforti storici, e se lei sa di convivere con l’ombra, tuttavia, è presa dal richiamo della luce, di là da quello che chiama ”un apotema d’assurdo” e ”da una società malata / schiava del benessere”. ”Ritornino le rondini / nel cielo di lacrime e acquietano i cuori”, ed evidentemente,
”nell’Eden del sogno”. E, in slargarsi catarsi: Udii / pettirosso / il tuo messaggio / di pianto / lasciato / sul tenero prato”. E poi: ”Perché l’acqua / risale la corrente, / la cenere / rinutre le radici / e nel mistero affonda / la follia” / dell’uomo?” I tempi tacciono…, il Sud sconta l’emarginazione secolare per cinico decreto emanato altrove, ma i suoi figli migliori lavorano per la sua crescita e la sua emancipazione sociale, culturale e creativa.
Paolo Arecchi