di Stefano Maria Cuomo
Il conflitto israelo-palestinese è uno dei nodi geopolitici più longevi e controversi del nostro tempo. Tuttavia, se da un lato la sofferenza del popolo palestinese continua da decenni tra occupazione, esilio e violenze, dall’altro il “caso palestinese” è stato progressivamente trasformato in uno strumento retorico e politico, usato spesso in modo opportunistico da attori statali e non statali per finalità che poco hanno a che fare con la reale difesa dei diritti umani o della giustizia internazionale.
Un simbolo globale, ma a quale costo?
Nel corso degli anni, la causa palestinese è diventata un potente simbolo di resistenza contro l’oppressione e, più in generale, di lotta contro l’imperialismo. Questo ha permesso al tema di ottenere una forte risonanza globale, ma ha anche aperto la porta a varie forme di strumentalizzazione ideologica, in particolare:
Da parte di regimi autoritari, che usano la retorica pro-Palestina per distogliere l’attenzione dalla propria repressione interna. È il caso, ad esempio, di alcuni governi arabi che, pur proclamando solidarietà al popolo palestinese, hanno storicamente mantenuto rapporti ambigui con Israele e hanno fatto poco o nulla per sostenere concretamente i palestinesi.
Da parte di movimenti politici (sia di sinistra radicale che di estrema destra), che in certi casi si appropriano della narrazione palestinese per rafforzare le proprie agende ideologiche, senza riconoscere le complessità culturali, religiose e storiche della questione.
Da parte di media e influencer, che cavalcano l’indignazione per aumentare visibilità o engagement, senza approfondire le radici del conflitto o proporre soluzioni costruttive.

L’indifferenza dietro la retorica
Molti Paesi che oggi si ergono a difensori dei diritti del popolo palestinese si sono spesso dimostrati indifferenti, se non complici, nelle sedi internazionali. Manca una volontà politica concreta, e troppo spesso la “solidarietà” si limita a slogan vuoti o manifestazioni simboliche. La strumentalizzazione diventa quindi una forma di ipocrisia diplomatica, dove la causa viene evocata solo quando torna utile, salvo poi essere dimenticata nei momenti cruciali.
Il popolo palestinese come soggetto invisibile
In questo contesto, ciò che si perde è proprio la voce autentica del popolo palestinese. Uomini, donne e bambini che vivono ogni giorno l’occupazione, l’assedio o l’esilio non sono rappresentati nei dibattiti internazionali in modo diretto. Vengono parlati “per conto di”, raramente ascoltati. L’identità palestinese viene spesso ridotta a un’immagine iconica da usare nei poster o nei tweet, privandola della sua complessità e umanità.
Riconsegnare la causa ai palestinesi
È urgente decolonizzare la narrazione del conflitto e restituire centralità ai palestinesi nella loro lotta. Questo implica ascoltare le voci palestinesi autentiche – giornalisti, attivisti, accademici, cittadini – e supportare le loro iniziative senza appropriarsi della loro causa. Vuol dire anche riconoscere che la solidarietà non può essere selettiva, né piegata alle logiche geopolitiche del momento.
Conclusione
La causa palestinese è prima di tutto una questione di diritti umani, giustizia e autodeterminazione. La sua strumentalizzazione, sotto qualsiasi forma, non solo ne svilisce il significato, ma contribuisce a mantenere lo status quo. Serve uno sguardo critico, etico e coerente, capace di distinguere tra solidarietà reale e opportunismo politico. Solo così sarà possibile contribuire a una pace giusta e duratura, che parta dal riconoscimento pieno della dignità del popolo palestinese.









