domenica, Maggio 18, 2025
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Lame di tramonti, La luce del ritorno di Maria Teresa Liuzzo – A cura di Chiara Ortuso

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Lame di tramonti, La luce del ritorno di Maria Teresa Liuzzo

Un eterno ritorno che riconduce celermente l’azione individuale ad un punto di scorrimento e trascendenza indefinito. Un tramonto che assume il significato di una rinascita immateriale quella che l’autrice e poetessa Maria Teresa Liuzzo narra all’interno del suo ultimo capolavoro: “La luce del ritorno” (A.G.A.R, pp. 182), il quale rappresenta il suo testamento biografico spirituale, avviando, fin dalla primissime pagine, un iniziatico percorso che, attraverso l’immagine speculare della defunta Mary, si rispecchia, in uno straordinario gioco di strutture sovrapposte, entro un meandro di originari rimandi, nelle azioni della piccola Mia, nella sua leggera esistenza di libellula fugace e visionaria. Così la figura incantevole della madre continua a risuonare nelle pallide membra della figlia, avviandola ad un cammino di consapevolezza e di amore per mezzo di un incastro di apparizioni e visioni che spaziano nella caducità dell’esistenza terrena. Un vissuto capace, tuttavia, di nutrirsi dell’esperienza dell’incommensurabile. In tale maniera, nel bel mezzo di una tediosa luce notturna, Mary si presenta nella sua veste di fantasmagorica guida e, come una novella Beatrice di dantesca memoria, penetra nei sentieri di Mia, consolandola dal suo desolante e funesto solipsismo: “Non piangere piccina, non sarai mai sola”, mentre dal cielo una dolce nenia risuona mesta e meditabonda: “Luna lunatica, luna bambina d’azzurro vestita nel cuore del mondo smarrita […] senza la mamma la casa è vuota”. Il regno del nulla, la nausea che, sartraniamente discutendo, irrompe gettando l’esser-ci in un mondo costruito secondo i dettami dell’impersonale “si”. E tuttavia quella cura per un umano annientato ed ormai perduto risplende, abbagliando come un sole camusiano, gli occhi oramai spenti della piccola Mia. La lunga oscurità sembra, in tale maniera, interrotta da un’alba la quale disvela la Lichtung, quella radura dell’Essere che trapela mediante un linguaggio il quale trasuda poesia. Ed è questa lingua muta che poetando proietta la fanciulla in un iperuranio nel quale le forme immutabili e vivide delle idee si trasfigurano in meravigliosi ruscelli di acqua cristallina, conducendo Mia fuori dalla sua caverna, lontano da quel regno di ombre che incatenano a quella parete a strapiombo sul niente che il tisico Ippolit, all’interno dell’Idiota di F. Dostoevskij, non riuscì mai a frantumare se non con un fulmineo sguardo. Ed è un tramonto che lascia spazio all’immenso che pare rivelarsi finanche in una stanza chiusa, frattanto che l’occhio dell’altro uomo trapassa, da un fianco ad un altro, un’individualità la quale si scopre fragile nella sua estatica erranza. Così la prosa di Maria Teresa Liuzzo attraversa, con la sua soffusa tonalità di addio e commiato, l’anima del lettore, accompagnando mediante un’ars poetica che, mescolandosi al racconto, traspare allietando, come nettare prezioso, l’intera vicenda tratteggiata per poi culminare in un nirvana di quiete estetica la quale sembra rinviare alla noluntas di immagine stoica. Un’atarassia di senso ed intenzione, una via di liberazione da quella volontà di vivere che segna disgraziatamente il destino di un individuo da sempre oscillante tra cafard e dolore, relegandolo in uno spazio di rassegnazione e di malinconia. E se l’al di là noumenico, di cui si parlava poc’anzi, sembra per certi versi una impossibile meta, inarrivabile finalità per un uomo costantemente vincolato alla sua fenomenica esistenza, La luce del ritorno della Liuzzo spalanca una prospettiva senza temporalità nella quale lo spettro della visione onirica colma l’indefinitezza di un’attesa foriera di evento. Di un segno in grado di restituire identità a questo sperduto ed assurdo vagare nel deserto di vagheggi e senso. Perché se l’universale pare schiacciare, molto spesso, la singolarità in quella dialettica di hegeliana specie in cui il positivo si riafferma dopo aver superato il suo negativo, il medesimo individuale si realizza nel trionfo della disarmonia dei contrari che per Adorno simboleggia lo stridore di una post-modernità nella quale le antinomie riecheggiano nell’incessante stonatura del reale. In siffatto modo, è nel ciclo di continua palingenesi che la storia di Mary pare trovare il suo significato, spegnendosi individualmente ma riecheggiando, quale evidente ritornello, nelle gesta di uno spirito acerbo eppure tanto forte qual è la sua creatura, Mia. Poiché: “Silenzioso e santo campo rimase il Cuore, porto natale dove i velieri ricolmi di merci dall’Oriente, dopo il loro viaggio verso l’immenso mare, ritornano dall’infinito sotto forma di pensieri”. Un eterno balbettio di scomparse. C’est ici que l’on prend le bateau– “E’ qui che si prende la nave”.

Chiara Ortuso

 

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