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L’utopia della scrittura e l’io polifonico nell’intimità del sé cosciente, Di Maria Teresa Liuzzo

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L’utopia della scrittura e l’io polifonico nell’intimità del sé cosciente

Di Maria Teresa Liuzzo

 

Oggi l’uomo, schiavo del computer e del cellulare, ha sostituito un organo iper-concreto che non lascia spazio al futuro, così come si nega a quelli che sono i sacri valori del vivere programmato –com’è a – dare risposte, seguace dello scontato e dell’ovvio. Ma non è possibile una vita priva di domande, altrimenti lo spirito muore e l’uomo rimane lontano da ogni tipo di ricerca che conduce all’essenza della sola verità. Tibullo suggerisce: “Sii una folla per te stesso”. La verità è necessaria, perché senza di essa non si avrà mai un punto d’incontro che possa rivelare sé stessi agli altri, e gli altri a sé stessi. La tragedia peggiore è l’indifferenza di Dio che non si rivela a nessuna preghiera. Un silenzio che graffia il tempo e il cervello dell’Umanità in attesa di quella “linfa vitale” che ci liberi dal rimorso dell’impossibile quiete-attesa di quest’alter ego alieno e ci avvicini all’icona del mistero. La pietà è amore dell’uomo per l’uomo se nasce dal quel tipo di sentimento, altrimenti è cosa ben diversa. Non sempre il “viatico” è morte, laddove si va alla ricerca della luce, alla conquista della radice esistenziale. Il corpo e lo spirito, sebbene legati dalla medesima sorte, sono due universi completamente opposti, dove l’utopia è un “eroe” che vive, anche da morto (tenendo presente il concetto di Tommaso Moro, per il quale i defunti realizzano le realtà passate e presenti nello spirito della divinità, e di Tommaso Campanella, che nella “Città del Sole” accoglieva gli uomini buoni). L’utopia, come la poesia, spesso si rivela dolorosa quando vuole essere: conquista, ed è qualcosa che si vive ed uccide. Sappiamo che la realtà della poesia è una strada semichiusa e ardua. Mai lavorare a opere per l’eternità, ma sdoganarsi dell’ipervalutazione della propria infelicità privata per denunciare i mali del sistema mondiale; per offrire ai contemporanei messaggi di civiltà in questo buio che ci avvolge come una chimera, come unica favola che ci accarezza. Offrire versi che siano ciocche della nostra anima, lacrime come magici gioielli. Sensualità panica quando il vento ci accarezza con labbra di zagara e la luna ci scalda col sangue dei papaveri. Tutte le parole, però, risulterebbero misere a descrivere l’entità di questo sentimento (Amore Universale) dove tenebre e luce convivono come la vita e la morte. Nel concreto tutto si riduce, perché l’anima sa che oltre l’amore è il Nulla. Presenza, dunque, come amore, difesa, entità, rispetto, essenza per l’Amore; ma anche dignità, equilibrio verso gli uomini e le cose, sintesi suprema di raccolta. Realtà della Morte che rafforza il valore della Vita. E l’amore del “Padre”, in quella Sua Presenza e Potenza che si manifesta, e ne è la ragione. Sensazione di cose che verranno, o realmente vissute dentro di noi che devono ancora accadere? Emozione disperata come visione che si completa entro qualcosa che si sgretola e l’essere torna parte delle macerie umane: colore, nota, linguaggio. Utopia come realtà irreale dove il miracolo si compie eternando la memoria in ogni suo gesto; in cui noi, rappresentiamo la magia della parola nella più completa e isolata sospensione. Ci troviamo contemporaneamente dinnanzi a due realtà: una sincera, l’altra bugiarda; il micro e il macrocosmo, entrambi eterni e inattingibili. Utopia, come gioia che ci possiede ma anche come morte che ci consuma vivendo: il respiro di un istante, l’attimo contagiato da un riflesso; una strada che unisce o una che disgiunge: frammenti di reazione che legano i vari tempi della condizione e traggono dall’inutilità la meschinità del loro utile. Ecco, allora, il collocamento lapidario del verso dove risiede l’unica realtà del duplice senso. Emergono la sofferenza e l’amore estremo, i due opposti che hanno in comune l’intensità. Ci viene in mente Rachele, la protagonista del primo romanzo di Virginia Wolf, e la perfetta, impossibile felicità a cui anelava (che come la giustizia non è di questo mondo). “Cos’è la morte? Un nulla… La felicità, la perfetta felicità” … Un gomitolo come un dio bifronte, rappresenta la gioia e il dolore, la trasparenza e l’inganno, il limite e il trascendibile, sostanze distinte da unificare nella vastità dello spazio. Burattini al guinzaglio del tempo, catturati da quella condanna chiamata libertà o mistero (nessuno fuoriesce dal proprio “Io” che genera la condizione della morale). L’uomo nemico di sé stesso, l’ombra a colloquio con l’estinto. Il corpo inamidato della cera dell’aria, “l’elettricità” del sangue tra le cellule, l’ipofisi dell’alta tensione, fulcro del controllo, l’emozione come universo d’immagini. Ma, anche quando la violenza non sfiora i nostri giorni, termina la stagione dell’esistere e si spalancano le fauci dell’incubo tra sacralità e invenzione: nullificazione, non come negazione degli affetti, ma come affermazione del contrario. In tutto ciò che non ha testimoni, in ciò che non si può raccontare, in ciò che vive e muore con l’essere, che ha saldato l’eterna simbiosi tra astratto e concreto, tra sangue e ossami. Universale, come sacralità tra certezza e dubbio, tra reale e inesistente, tra opinabile e dogmatico; il legame tra libertà e coscienza, il rapporto tra l’individuo e la collettività. Proiettare la nudità dei nostri segreti che illumina dentro e fuori il suo campo d’indagine. Alzare lo sguardo verso l’assoluto nel progressivo mutare delle forme, sorvegliare quel défilé di scenari che ci cattura. Emergono i fantasmi dell’inconscio, agitati e insoddisfatti e la distruzione del finito genera un nuovo inizio. Ecco, dunque, che la Poesia si fa dono, sfociando nel pessimismo cosmico, in quel verso che ci ha lasciato Silvia Plath “Morire è un’arte”. Una metamorfosi che dà vita a nuove scorie, un mistero fitto inviolabile di cui l’essere continua quale parte e non causa nella monade infinita che è Dio. Ordine enigmatico di questa sostanza umana che non si esaurisce per rendere omaggio ad un tappeto terreno, che sconosce la pietà della carne e l’angoscia del pianto: il Fil rouge della Vita che può iniziare soltanto nell’intimità del sé cosciente. Solitudine come creatività, recupero della memoria (Milan Kundera). Riallacciarsi all’Epochè (sospensione dell’assenso) per essere polso e respiro nell’urgenza della parola che si fa sacrificio. Fermarci al sintomo per non sconfinare nella sindrome. Scrittura come terapia. Heidegger afferma che: “Nella solitudine si decompone il linguaggio che è la dimora dell’essere”. Essere simultanei è il librarsi nell’inconscio porgendo al lettore “l’alloro” di un Io Polifonico. Il tutto, ci permette di accantonare il problema Metacronico del “Mutevole” e l’avvicinarsi alla reale sfera della solitudine per rivivere “nell’unico modo possibile che è quello attuale” (Leibniz). Una sorte che accomuna l’essere al Creato, la sostanza alla parola, il Principio al limite. Creta consunta dal giorno, la bocca purpurea di un bimbo che la bara dell’alba sacrifica nella sua matassa di orrori e illusioni… Miraggio come inganno e verità. I vari stadi dell’acqua, dell’uomo, dei sogni, dei conflitti, dei significati. Acqua, quale universo materno; protezione, rifugio, paura illusione di un oggi vincolato all’ieri ed estraneo al domani, tutt’ora ancorati al rifiuto della verità. Sentiero luminoso che conduce al Nulla Eterno: innamoratosi del proprio dolore compagno della vita, diorama del silenzio, Amore, di un’atmosfera irreale in un panorama infinito che capovolge qualsiasi apotema d’assurdo. Emozioni che non si possono raccontare ma solo vivere, travolgimento di una morale in collisione con l’essere medesimo dove l’emozione, allo stato puro, rende il fuoco della cenere. Un grande amore che ci veste di luce, conscio di scegliere il buio rendendoci l’ultimo frammento della sua unità. Il tempo, invece, è l’indumento che assorbe il nostro sangue nella verità che germoglia e che non può essere uccisa in quel punto, che fugge come l’ombra, seminando talee di morte.

Immortale rimane il pensiero della conoscenza, dove l’angoscia profana il cuore della rosa che ha il sospiro del cielo e il colore della notte. Distanza dalle ipocrisie che, spesso, riempiono la bocca di tutti, ma come riflessione affinché lo Spirito operi nella verità, nel principio dell’onestà e che difenda ovunque e sempre i sacri valori della vita e della famiglia, bene comune, cellula della società. Siano gli adulti più presenti ai sogni e ai bisogni degli adolescenti, abbandonati spesso all’indifferenza e al degrado mentale degli stessi, agli orrori dell’infanzia negata che vanno oltre la guerra, le malattie, la fame. Siano scuola e famiglia modelli di humanitas e di rispetto, anche se spesso perbenismo e cultura non vanno mai di pari passo. Percepire che in questo spazio e tempo, l’apparenza, da sempre supera il reale. E l’innocenza è destinata a rimanere in bilico, umiliata, tra verità di fatto e verità di ragione. Scrittura come utopia, seme della parola che si gratifica nel suo continuo donare; come Fede che perfeziona la ragione della Verità; angoscia e unica salvezza dell’uomo, lontano da ogni odio politico e da invidia sociale. Attraverso la cruna di quella povertà radicale, egli, si libera dalla stessa; si svuota del proprio corpo nutrendosi della propria coscienza; è il lievito amaro della poesia, la cellula del percepire. È Dio che abita il cuore di chi opera e a sua insaputa compone. È preghiera che ci eleva; che edifica un Tempio spirituale dove l’anima è “impiegata” come pietra viva che dolora, che pretende sempre più dalla parola, non come questione di resa, ma semplicemente d’Amore. Aprirsi al mondo, è offrire il contenuto della nostra anima (res cogitans ed res extensa) sostanze distinte a Dio, creatore e figlio, di tutti i tempi. È seme e fiore, vetta e onda, radice e croce, quale culto al Dio dell’Amore, della bellezza e della verità; pregnante di umanità, segreto e passione; morte e resurrezione; ipogeo e stelle; splendore e linfa della memoria universale. Esperienza vissuta che esprime il sentimento integralmente inteso come simbolo di civiltà; di amore e dolore che attende di attingere alla sorgente misteriosa del domani (nessuno può ipotecare il futuro, né avere un abboccamento preliminare col destino), ma che ha la certezza di conoscere già, con gli occhi del cuore. Non va escluso che la mente (eco delle necropoli e del caos) è “costretta” al mimetismo di una realtà duplice e spartana; a differenze individuali; ai continui appelli alla paura, al vandalismo (che è disperazione degli emarginati ); ai ripetuti filtri di elaborazione, (in attesa che il lievito dell’urlo possa deambulare verso un corso d’acqua, (scelta autonoma); e la coscienza possa finalmente liberarsi dalle tante strettoie e sostare nella sua culla di luce, come Arte e parola ; Spirito e carne; sia nella vita di relazione, quanto nella profonda armonia. Sconoscere la soluzione non significa ignorare o non essere parte del problema, ma unificare il palpito e il dramma dell’esserci, comprensivo di ragione e interesse: luce e ombra, uomo e donna, bene e male, limite e origine di questa pietas, diaframma di segnali ed emozioni; crisalide del soffio, quale padronanza di linguaggio e ospite sacro nel contenitore dell’iride, che altro non è che l’emisfero boreale della Parola. In questo sapore di luce tutto è temporale; sopravvive soltanto l’embrione del verso fatto sangue, l’eterno confronto tra creatività e riflessione. Rimane, dunque, la speranza di ritrovarci sempre in questo grande mare di salvezza che è la poesia, pilastro di ogni esistenza, in questo grande miracolo, che è la vita nonostante l’utopia della scrittura e la realtà degli eventi. Cerchiamo, dunque, le radici dell’ “Io” non solo come sorgente dell’attimo ma come alimento puro della Vita. “Signore riallacciami all’albero a cui appartengo: non ha senso rimanere da solo”. (Antoine de Saint-Exupéry).

Maria Teresa Liuzzo

 

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