La morte di Santo Romano ha lasciato una comunità intera sotto shock: quello che all’inizio è sembrato un tragico episodio isolato si sta delineando come il punto finale di una catena di violenza e illegalità che sembra aver coinvolto anche giovani reclutati in attività di gruppo. Secondo quanto emergerebbe dalle indagini condotte dagli inquirenti, il giovane ritenuto responsabile dell’omicidio – un minorenne, definito nei comunicati delle autorità come il «baby killer» – sarebbe stato inserito in una rete di rapinatori attiva sul territorio, partecipando a colpi messi a segno con modalità ripetute e consolidate. Le verifiche investigative, partite nelle ore successive al delitto, hanno seguito diverse direttrici: testimonianze dei presenti, immagini di videosorveglianza acquisite nelle zone interessate, riscontri sui cellulari sequestrati e l’escussione di persone vicine ai sospetti. È emerso un quadro che non lascia pensare a un gesto compiuto in solitudine: più fonti investigative parlano di coinvolgimenti precedenti del giovane in episodi di furto e di rapina, sempre in gruppo, e di frequentazioni riconducibili a una struttura organizzativa informale che recluta ragazzi per compiere reati di strada. Secondo gli investigatori, la gang sfrutterebbe la giovane età di alcuni membri per compiere azioni a basso profilo investigativo, ricorrendo poi a prestanome o conti correnti “muli” per riciclare i proventi. Il dramma di Santo, uomo la cui morte ha acceso immediata indignazione, resta al centro della ricostruzione emotiva e giudiziaria. La vittima, uccisa in circostanze per cui gli inquirenti devono ancora definire dinamica e movente con precisione, lascia una famiglia che chiede verità e giustizia. I familiari, distrutti dal dolore, hanno ribadito nelle ore successive al funerale la richiesta che il caso venga chiarito fino in fondo: non si accontentano di colpevoli isolati, vogliono che emerga l’intera rete che ha portato a quel gesto. Nelle comunità dove queste tragedie si consumano spesso, il lutto si mescola alla rabbia per la sensazione di abbandono sociale e alla frustrazione per la diffusione di microcriminalità che coinvolge sempre più minorenni. Le forze dell’ordine, pur mantenendo la massima riservatezza sulle fasi più delicate dell’indagine, hanno reso noto di avere raccolto elementi utili a sostenere l’ipotesi del coinvolgimento in reati predatori. L’analisi dei tabulati telefonici e il confronto incrociato con i filmati hanno permesso di collocare il giovane – in più occasioni – vicino a episodi di rapina consumatisi nelle settimane precedenti: nella maggior parte dei casi gli assalti avvenivano in orari serali, in piccoli gruppi che agivano con rapidità e con strategie ripetute per non lasciare tracce. Elemento ricorrente, secondo gli investigatori, è l’uso di minori come “avanguardia” o come soggetti meno esposti a misure cautelari severe, una dinamica che solleva domande anche sul ruolo di eventuali adulti che avrebbero potuto favorire il reclutamento. Accanto all’attività repressiva si apre la questione della risposta preventiva: come si ferma il reclutamento di ragazzi nelle gang? Gli operatori sociali e le realtà del terzo settore locale richiamano l’attenzione sulle molteplici cause che spingono i giovani verso la delinquenza di strada: povertà, dispersione scolastica, assenza di opportunità occupazionali e culturali, fragilità familiari. «Non basta arrestare, bisogna incidere sulle cause», dichiarano alcuni rappresentanti associativi che lavorano nei quartieri più esposti al fenomeno. Un approccio che coniughi repressione e prevenzione risulta, secondo questi operatori, indispensabile per non vedere continuare il ricambio generazionale della microcriminalità. Sul piano giudiziario la posizione del minorenne verrà trattata dalla magistratura competente per i minorenni, che valuterà misure cautelari adeguate e le possibili prospettive processuali. La legge minorile prevede percorsi rieducativi differenti rispetto all’ordinamento penale per gli adulti, ma nei casi di crimini gravissimi vengono comunque applicate misure restrittive severe e, laddove necessario, si procede con indagini per risalire ai mandanti o ai complici adulti. Gli inquirenti stanno dunque cercando di stabilire se l’omicidio di Santo sia riconducibile a una vendetta, a una spirale di escalation avvenuta durante una rapina finita male, o a dinamiche interne alla gang. Ogni ipotesi, al momento, è al vaglio. La vicenda ha acceso anche il dibattito politico e civile: amministratori locali, esponenti delle forze dell’ordine e rappresentanti del mondo dell’istruzione hanno convocato tavoli straordinari per affrontare il tema della sicurezza giovanile. Il sindaco ha espresso cordoglio per la famiglia di Santo e ha promesso «tolleranza zero verso ogni forma di criminalità», annunciando un incremento dei controlli e l’attivazione di programmi di contrasto alla devianza minorile in collaborazione con scuole e associazioni. Dalla Prefettura è arrivata la conferma di un potenziamento dei servizi di polizia nei quartieri più a rischio. Ma la rabbia della comunità non si limita alle misure di ordine pubblico: molte voci chiedono interventi strutturali, investimenti in politiche di inclusione, spazi ricreativi e opportunità di formazione professionale per i giovani a rischio. «Santo non deve essere solo un nome in un articolo, deve diventare il punto da cui ripartire per cambiare qualcosa», dice un volontario che lavora con adolescenti del territorio. Il caso, infine, richiama l’attenzione sulla fragilità dei percorsi rieducativi per i minori che entrano in contatto con la devianza violenta: la comunità e le istituzioni devono valutare strumenti per prevenire il ritorno alla criminalità e per sostenere la vittima e la sua famiglia. La tragedia di Santo pone interrogativi che vanno oltre la specifica vicenda giudiziaria: urge una riflessione collettiva su come la società assiste, o fallisce nell’assistere, le fasce più giovani e vulnerabili. Per ora l’indagine prosegue, con acquisizioni probatorie che cercheranno di chiarire fino in fondo ruoli e responsabilità. La speranza della famiglia e della città è che non si tratti di un episodio isolato che si risolve con una condanna individuale, ma che la verità giudiziaria e sociale serva a impedire nuovi drammi. In attesa che la magistratura definisca il quadro probatorio, resta il dolore per Santo e la richiesta unanime che la giustizia faccia piena luce su una vicenda che ha mostrato la faccia più crudele della devianza giovanile.









