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Nuovi dazi Trump: come cambierà l’industria della moda.

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I nuovi dazi imposti da Trump colpiscono duramente il settore della moda, soprattutto in paesi con deficit commerciali significativi. Cina, Vietnam, Cambogia e Bangladesh sono tra i più penalizzati, con tariffe che arrivano fino al 49%.

Le nuove tariffe imposte dagli Stati Uniti gettano un’ombra lunga sul futuro della moda globale. Noti come “Liberation Day Tariffs”, i nuovi dazi potrebbero riscrivere le regole del settore. Il presidente Donald Trump ha infatti introdotto tariffe reciproche su oltre 180 paesi, colpendo duramente le catene di approvvigionamento internazionali. Con i dazi di Trump fino al 54% sulla Cina, al 46% sul Vietnam, al 29% sul Pakistan e al 20% sull’Unione Europea, l’impatto per l’industria della moda, profondamente globalizzata, è potenzialmente enorme.

Per comprendere l’impatto delle nuove tariffe americane, bisogna partire da un dato strutturale: la moda è un’industria altamente globalizzata. Dietro ogni capo venduto negli Stati Uniti, dal trench di lusso al jeans low cost, si cela una catena lunga, frammentata e geograficamente incentrata sull’Asia. Secondo la United States Fashion Industry Association, oltre il 60% dell’abbigliamento importato negli USA nel 2024 proveniva da Cina, Vietnam e Bangladesh, le tre potenze mondiali della produzione tessile e abbigliamento. La decisione di imporre dazi tra il 34% e il 46% su questi paesi rappresenta un colpo durissimo per la struttura stessa della filiera. Ora, i brand si trovano a dover ripensare tutto: sopportare l’aumento dei costi, trasferirli ai consumatori (con il rischio di perdere appeal sul prezzo), o tentare un trasferimento lampo dei luoghi di produzione.

Il futuro della moda sembra sempre più incerto: brand del lusso e fast fashion si trovano ad un bivio tra assorbire i costi aggiuntivi e trasferirli sui consumatori, rischiando di comprometter la crescita aziendale. Spostare una produzione non significa solo cambiare paese. Significa rinegoziare contratti, formare nuovi fornitori, verificare la qualità e altri dettagli che richiederebbero almeno 4-6 mesi di pianificazione, nella migliore delle ipotesi. Un’altra possibilità, già in discussione tra alcune aziende, è quella di avvicinare la produzione al mercato finale, ma qui emergono altre difficoltà. L’industria americana ha perso nel tempo gran parte delle sue competenze manifatturiere, con solo il 3% dell’abbigliamento venduto negli Stati Uniti prodotto internamente.

L’obiettivo degli USA è quello di riportare produzione e manifattura sul territorio nazionale. Ma per i grandi nomi del fashion globale, adattarsi a questo nuovo scenario non sarà semplice. Il rischio è quello di dover ripensare strategie produttive e commerciali per rimanere competitivi.

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Il settore del fast fashion è quello più a rischio. Basato su velocità, bassi costi e grandi volumi, questo modello di business è particolarmente esposto a ogni incremento dei dazi. Con tariffe che in alcuni casi toccano il 50% effettivo sul prezzo finale, il margine di manovra si riduce drasticamente. Marchi come Shein, H&M o Zara potrebbero essere costretti a rivedere prezzi, strategie logistiche e scelte produttive, mentre l’incertezza rende difficile pianificare a lungo termine. La tentazione di cercare nuove mete produttive è alta, ma le alternative asiatiche presentano a loro volta problemi: il Bangladesh è economicamente competitivo, ma ancora al centro di dibattiti su condizioni di lavoro e instabilità politica. Il Vietnam, pur colpito dai dazi di Trump, resta una delle opzioni più solide, ma con capacità limitate. Il rischio più concreto, in uno scenario come questo, è che le aziende si trovino costrette a ridurre gli investimenti in produzioni più etiche e sostenibili, mettendo da parte gli obiettivi a lungo termine conquistati negli ultimi anni per far fronte alle urgenze del momento.

Appare diverso il discorso per il mercato del lusso, che opera con margini più ampi e un pubblico tendenzialmente meno sensibile al prezzo. Nessuno però è immune dagli scossoni di Trump: il 20% di dazio sull’Unione Europea e il 31% sulla Svizzera colpiscono direttamente segmenti fondamentali, come l’orologeria svizzera o i prodotti moda di alta gamma realizzati in Europa. Il problema, però, va ben oltre queste cifre. Negli ultimi anni, in un contesto di rallentamento della domanda in Cina e in altri mercati chiave, gli Stati Uniti erano diventati il motore principale della ripresa post-pandemica del lusso. Le maison avevano investito in nuove aperture al di fuori delle grandi città, come Hermès ad Austin o Louis Vuitton a Indianapolis, e i dati sembravano confermare una resilienza del consumatore americano, ancora disposto a spendere nonostante l’instabilità economica. Una traiettoria che, con la rielezione di Trump, si pensava potesse proseguire, anche grazie alla sua immagine fortemente legata al lusso e alla ricchezza, senza prevedere la chiusura così drastica dei mercati internazionali avvenuta poi. Così i dazi di Trump colpiscono il fronte più reattivo e promettente del mercato, interrompendo un trend che stava dando ossigeno all’intero settore, in difficoltà da diversi anni. I nodi vengono al pettine: la greedflation, strategia che ha portato i listini a salire in media del 54% rispetto al 2019, si ritorce sulle aziende del lusso. Ora in difficoltà al pari della pandemia o della crisi del 2018.

L’Italia guarda con preoccupazione a quanto accade. I dazi di Trump sull’Unione Europea colpiscono direttamente il comparto del lusso italiano, da sempre forte esportatore verso gli Stati Uniti. Settori come la pelletteria, le calzature, la sartoria di fascia alta e il tessile potrebbero subire rallentamenti, soprattutto se i clienti americani decidessero di contenere la spesa.

Ma se da un lato il panorama è critico, dall’altro potrebbe aprirsi una finestra di opportunità per il Made in Italy, che ha nella qualità, nella creatività e nella tracciabilità i suoi principali asset. In un panorama dove le supply chain asiatiche sono sotto pressione e la fiducia nei grandi hub produttivi viene messa in discussione, l’industria italiana può rafforzarsi sfruttando l’eccellenza e l’affidabilità. Perché questo accada, però, serve un cambio di passo: investimenti in innovazione, sostenibilità e un solido supporto da parte delle istituzioni.

La moda è da sempre un sistema interconnesso che vive di scambi, contaminazioni e movimento. Scelte politiche di chiusura non faranno altro che limitane l’essenza.

 

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