Di Stella Camelia Enescu
Dal silenzio del Golgota al trionfo della gioia, la Pasqua ha sempre avuto una voce. Un canto che attraversa secoli e continenti, lingue e popoli, fede e arte. In questo viaggio musicale, ogni nota è una ferita risanata, ogni voce è speranza. Pasqua non arriva mai in silenzio. Anche quando tutto tace, persino quando la pietra sigilla la tomba, il mondo interiore vibra come una corda tesa. E poi, lentamente, la musica comincia. Prima è sussurro, poi respiro, infine canto. Un canto antico, universale, che l’umanità intona da secoli, come un rito, come una preghiera. Ogni civiltà ha trovato il suo modo per raccontare la resurrezione — e l’ha fatto con la voce, con gli strumenti, con il corpo stesso. La Pasqua canta. Sempre. E uno dei canti più toccanti, fra tutti, nasce dal teatro dell’opera, laddove il dolore umano incontra la bellezza assoluta dell’arte: “Inneggiamo, il Signor non è morto”! — l’Inno alla Madre tratto dalla” Cavalleria Rusticana” di Pietro Mascagni. In questa pagina, che non è sacra ma lo diventa, la musica si fa carne e resurrezione. Il coro innalza il suo grido: “Inneggiamo, il Signor non è morto! / Ei fulgente ha dischiuso l’avello!” Ed è come se la pietra rotolasse via non solo dal sepolcro, ma da ogni cuore oppresso. Il “Nejam” come viene affettuosamente chiamato, è diventato per molti una colonna sonora pasquale, un ponte tra sacro e popolare, tra opera e liturgia, tra teatro e chiesa.
InGermania: la’ nel uore dell’Europa, la musica di Pasqua si fa cattedrale: le “ Passioni: di Johann Sebastian Bach sono composizioni monumentali, veri templi sonori. La” Passione secondo Matteo” e la “Passione secondo Giovanni “non sono solo opere musicali: sono pellegrinaggi spirituali in forma di suono. In esse, l’Aria, il Corale, il Recitativo si alternano come stazioni di una via crucis intima, dove ogni strumento è una lacrima e ogni voce una ferita. Nelle chiese protestanti, la coralità della comunità diventa partecipazione attiva: i fedeli non solo ascoltano, ma cantano insieme. Così, la resurrezione non è solo narrata, ma vissuta. L’organo, maestoso, si fa respiro del divino.
In Sicilia, in Campania, in Puglia, la Pasqua si ascolta in strada. Le confraternite incappucciate, le marce funebri, i “Miserere” sussurrati con voce rotta. Le bande di paese accompagnano statue di Cristo e della Madonna Addolorata, spesso con brani lirici o religiosi popolari. La musica è lenta, piena, come la pietà. Le voci dei fedeli si uniscono nei canti della Passione: “Teco vorrei, Signore”, “Stabat Mater dolorosa”, è un canto che non ha spartito, perché vive nel cuore.
In Andalusia, durante la Semana Santa, il silenzio di una processione viene squarciato da una voce improvvisa: è la saeta. Un canto flamenco, ma spoglio, a cappella, pieno di struggimento e fede. La saeta non segue la musica: la crea. Viene cantata da balconi e finestre, mentre le confraternite passano con le loro immagini sacre. La voce trema, è roca, è antica. È una ferita aperta che diventa preghiera. In quella voce, ogni dolore umano si unisce a quello di Maria, alla Passione, alla speranza.
Nelle chiese ortodosse, la musica pasquale è profondamente mistica. Il canto bizantino, monodico e modale, si muove tra silenzio e ascesa. Durante la Veglia del Sabato Santo, l’oscurità avvolge tutto; poi, una candela si accende, passa di mano in mano, mentre i cori intonano: “Christos anesti ek nekron, thanato thanaton patisas…” (Cristo è risorto dai morti, calpestando la morte con la morte); il canto si fa onda che cresce, che esplode, che illumina; non è solo celebrazione: è esperienza del miracolo.
In Etiopia, la Fasika è celebrata con musiche liturgiche ancestrali; i “ Debtera”, cantori tradizionali, suonano il sistrum (strumento a percussione) e i tamburi sacri” kebero”. Le melodie sono trasmesse oralmente, con testi in Ge’ez, la lingua liturgica; la musica è danzata, è pulsata. Il corpo partecipa al rito: si dondola, si inchina, si innalza. Ogni nota è una scintilla di resurrezione.
Nelle Filippine, la Pasqua è preparata dalla “Pabasa”, una lettura cantata della Pasyon, poema epico religioso sulla Passione di Cristo; famiglie intere, vicini, comunità, si alternano per giorni e notti, senza interruzione; i versi, declamati in canto, creano una catena sonora ininterrotta; è un rosario di suoni, un filo che unisce voci diverse in un unico gesto d’amore.
In Guatemala, la Pasqua si vive tra fiori e suoni: le “alfombras” tappeti floreali creati lungo le strade, accolgono le processioni solenni; le bande suonano marce funebri, ma anche brani di speranza; ogni passo è un battito, ogni nota è resurrezione in cammino.
In Perù, in Bolivia, in Messico, la musica pasquale mescola canti indigeni, influenze spagnole, strumenti precolombiani; è sincretismo che canta la vita.
Negli Stati Uniti, nelle chiese afroamericane, la Pasqua è canto di gioia liberata; il gospel vibra tra le mani alzate, i tamburi, le voci potenti. Il coro grida:“He rose!” (Egli è risorto!); ma è anche un grido di resistenza e di speranza: se Cristo ha vinto la morte, anche ogni oppresso può risorgere; la musica qui è festa, ma anche guarigione; è resurrezione personale e collettiva.
La Pasqua, nel mondo, è come un’orchestra sconfinata. Ogni cultura ha il suo strumento, la sua voce, il suo tempo. Ma tutte raccontano la stessa storia: la pietra è stata tolta. La luce è tornata. Il canto può ricominciare. E forse, in fondo, la vera resurrezione è proprio questa: quando anche noi, ogni anno, impariamo di nuovo a cantare!