Nel corso dell’udienza del processo per le violenze avvenute il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove sono imputati 105 fra agenti penitenziari, funzionari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e medici, l’ispettore Salvatore Mezzarano — all’epoca in servizio nel Reparto “Nilo” teatro dei pestaggi — ha reso dichiarazioni che scuotono il dibattimento. “Ho colpito sul gluteo un detenuto; per un secondo ho sbattuto il manganello a terra vicino ai suoi piedi. Mi scuso per ciò che ho fatto, anche con lei dottore, ma erano gesti dissuasivi… Ma ho difeso decine di persone, posso giurarglielo.”
Con queste parole l’ispettore conferma sia episodi di violenza diretta sia un presunto ruolo protettivo nei confronti di alcuni detenuti. Ma proprio queste affermazioni accendono il dibattito: come può conciliarsi l’ammissione della violenza con la rivendicazione di un ruolo di difesa? E quale verità emerge realmente dal “Reparto Nilo” quella drammatica giornata?
Il 6 aprile 2020, in pieno lockdown Covid, il carcere di Santa Maria Capua Vetere visse una forte mobilitazione dei detenuti nel reparto Nilo: secondo le indagini e le registrazioni video, molti agenti avrebbero costretto i reclusi a percorrere un “corridoio umano” fatto di calci, manganellate, schiaffi e abusi, anche nei confronti di detenuti non deambulanti.
Nei giorni successivi alle perquisizioni e alla rivolta interna, decine di testimonianze — fra cui alcuni degli stessi detenuti protagonisti oggi della parte civile — citano Mezzarano come uno degli agenti attivi: sia nel pestaggio sia nel tentativo di fermarlo. Un testimone ha affermato: “Quell’ispettore intervenne a mia protezione, mi tirò verso di lui e mi disse ‘Vai via, altrimenti qui ti ammazzano’… Mi diede un fazzoletto per il naso visto che perdevo sangue”.
La valutazione degli inquirenti è complessa: l’atto abusivo c’è – e Mezzarano lo ammette — ma lo scenario che l’ispettore presenta è quello di una “confusione totale” e di “frizioni, anche degenerazioni”, in cui lui cerca di intervenire. Le parole tradiscono un tentativo di mitigare la responsabilità: “Mi scuso… erano gesti dissuasivi… non erano tesi a fare male”. Tuttavia, il fatto rimane che vi sono episodi riconosciuti di aggressione, in un contesto dove le garanzie minime dei detenuti erano già violated.
La Procura di Santa Maria Capua Vetere considera quei fatti “tortura di stato” ai sensi dell’articolo 613-bis del codice penale: la durata dell’azione abusiva, la quantità di agenti coinvolti, la difesa impossibile dei detenuti sono elementi aggravanti.
L’intervento dell’ispettore Mezzarano, come emerge, è doppio: da un lato partecipa alla violenza, dall’altro dichiara di aver cercato di difendere alcuni soggetti. Questo dualismo pone interrogativi sull’organizzazione interna, sulla regia delle operazioni e sul ruolo effettivo degli imputati: è stato un attore del sistema repressivo o un operatore che si è trovato imprigionato in una dinamica immorale?
La difesa di Mezzarano sostiene che il suo operato andava letto in un contesto eccezionale, di rivolta e caos, che non giustifica però la violenza ma aiuta a contestualizzarla. “Cerchiamo responsabilità individuali, non un’accusa generalizzata contro il corpo della polizia penitenziaria”, dichiarò un legale in aula. Tuttavia, la parte civile replica che “contestualizzare non significa assolvere”: i video, i referti e le testimonianze mostrano detenuti feriti, spaventati, violentati.
La vicenda solleva un tema centrale: la cultura della detenzione, la gestione della sicurezza negli istituti penitenziari, il confine tra disciplina, autorità e abuso di potere. Le violenze del 6 aprile 2020 sono diventate un simbolo di come il carcere possa trasformarsi in strumento di punizione e non in luogo di recupero. Il coinvolgimento di figure di comando come un ispettore conferma che non si trattava di episodi isolati, ma di un’azione coordinata o tollerata.
Mentre il processo prosegue nell’aula bunker del penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, con udienze interminabili e un numero elevato di imputati, la testimonianza dell’ispettore Mezzarano aggiunge un tassello importante. Ma la domanda rimane: quale verità emergerà? E soprattutto: che giustizia può esserci se i protagonisti della repressione diventano al tempo stesso testimoni di protezione?
La ricerca della verità si intreccia con quella della riforma penitenziaria. Perché oltre alle singole responsabilità, servono cambiamenti strutturali: trasparenza, controllo esterno, garanzie per i detenuti, formazione continua per gli agenti. Fino a quando saranno possibili simili degenerazioni? Fino a quando un carcere potrà restare un luogo dove la violenza viene autorizzata o ignorata?
In Aula, le dichiarazioni scorrono. L’ispettore ammette i fatti, chiede scusa, ma al contempo chiede di essere riconosciuto anche per la sua azione “buona”. È un elemento che complica ancora di più l’immagine dello Stato: quando chi detiene l’autorità diviene simultaneamente carnefice e difensore, lo sbarramento tra ordine e abuso si dissolve. La speranza è che questo processo non resti solo cronaca giudiziaria, ma diventi occasione di svolta per una detenzione che rispetti la dignità umana.









