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Scrivere col martello. La letteratura industriale italiana, di Stefano Fasano

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Scrivere col martello. La letteratura industriale italiana

di Stefano Fasano

 

Qualcuno fa coincidere la fine della letteratura industriale italiana con la pubblicazione di La dismissione di Ermanno Rea. Era il 2002, il secolo dell’industria si era concluso, e lo scrittore napoletano pubblicava un romanzo che, in effetti, può essere considerato come la pietra tombale del genere: nella Dismissione, il protagonista Vincenzo Buonocore, tecnico dell’Ilva di Napoli, è ossessionato dall’arrivo, dalla Cina, di acquirenti per lo stabilimento. I cinesi si porteranno via la fabbrica pezzo per pezzo, e Buonocore è l’incaricato dell’azienda a progettare e seguire lo smantellamento. Ma Buonocore e l’acciaieria sono una cosa sola: assunto molti anni prima come manovale, oggi è una figura chiave nel suo reparto – a cui ha dedicato tutto se stesso. La vita di Buonocore e quella dell’Ilva sono una cosa sola, pulsano al medesimo ritmo, si nutrono l’uno dell’altra. Disperato, Buonocore decide che lo smantellamento dell’azienda sarà, “bullone per bullone”, il suo capolavoro, l’ultimo, estremo atto d’amore di un operaio che appartiene a un tempo che non c’è più. La dismissione è la storia di una nevrosi operaia, ma anche il canto di fine di un’epoca: la fabbrica non c’è più, viene portata via, in Cina. Non c’è più un’industria, in Italia, dice Rea, la stiamo vendendo insieme al sapere e alla mitologia nati con essa. Dopo La dismissione (il titolo è, consapevolmente o meno, anch’esso segno della fine di un’epoca) non c’è più una letteratura industriale possibile nel vero senso del termine nel nostro Paese.

 

La visita in fabbrica

Forse non è proprio l’atto di nascita, ma sicuramente il momento chiave di quel filone della letteratura italiana che si è occupato d’industria è l’uscita di Memoriale, il primo romanzo di un gigante troppo spesso dimenticato, Paolo Volponi. Era il 1962. Albino Saluggia, il protagonista del libro, si è ammalato di tubercolosi polmonare mentre era prigioniero in Germania durante la Seconda guerra mondiale. Tornato in patria, cerca riscatto e salute nel lavoro: viene assunto in un’azienda che non viene mai nominata, ma che assomiglia molto all’Olivetti di Ivrea – dove Volponi lavorò per molti anni, entrando in confidenza con Adriano Olivetti. I medici dell’azienda lo esonerano dal lavoro per malattia: Saluggia entra così in una spirale (di cui Memoriale è il protocollo) di paranoia. È convinto che ci sia un complotto contro di lui per tenerlo lontano dal lavoro e dalla normalità di una vita di lavoro. Allo stesso tempo, benché precipiti a poco a poco nella follia, Saluggia è in grado di registrare le incongruenze e le ipocrisie del sistema capitalistico in cui è immerso: la fabbrica è un luogo di mortificazione, dove l’uomo diventa un ingranaggio.

Il rapporto, che è insieme d’amore e di conflitto, tra Volponi e l’industria innerva tutta l’opera dello scrittore. Il suo ultimo romanzo, Le mosche del capitale (1989), è dedicato proprio ad Adriano Olivetti “maestro dell’industria mondiale”: scritto nell’arco di molti anni, racconta la storia di Bruto Saraccini, un umanista che lavora in una grossa azienda con lo scopo recondito di usare il progresso per creare un’industria dal volto umano. Saraccini – che è un po’ Volponi – fallirà nell’impresa, le sue illusioni saranno frustrate.

A proposito del romanzo, Volponi, intervistato da Giovanni Raboni nel 1986, rilasciò una dichiarazione che è, si può dire, la summa della sua poetica: «Oggi ci vorrebbe un romanzo (non credo sia il mio) che riuscisse a dare la complessità assurda della realtà in cui siamo: gli inganni, le cose nascoste, le simulazioni, gli imbonimenti, i medicinali distribuiti perché si resti in situazione di quiescenza, perché si accetti la grande compatibilità. Compatibilità con cosa? Ma con il sistema, con il capitalismo che rovina il mondo».

Ma torniamo agli anni Sessanta, vero centro della riflessione romanzesca sul rapporto tra uomo e industria. Nel 1961, il quarto numero della rivista “Il Menabò”, diretta da Elio Vittorini e Italo Calvino, era dedicato proprio a questo tema e si apriva con una lunga poesia di Vittorio Sereni intitolata La visita in fabbrica, da cui traggo questi versi:

[…]

Forse che meno soli, oggi, siamo stati?

Non ce l’ho – dice – coi padroni. Loro almeno
sanno quello che vogliono. Non è questo,
non è più questo il punto.

[…].

Vittorini, in uno scritto che sapeva di introduzione al volume, centrava il punto della questione “letteratura industriale” dicendo che: «Il mondo industriale, che pur ha sostituito per mano dell’uomo quello “naturale”, è ancora un mondo che non possediamo e ci possiede esattamente come il “naturale”. Esso ha ereditato da questo il vecchio potere di determinarci fin dentro alla nostra capacità di trarne dei vantaggi, e deve quindi subire una trasformazione ulteriore che lo privi appunto del potere di condizionare le nostre scelte e determinarci». La letteratura è qui, dunque, per farci vedere questo potere e questa contraddizione, per metterli a nudo. Negli anni dell’esplosione industriale del Paese, gli scrittori proponevano una riflessione sul sistema capitalistico che era (ed è) un modo tutto umanista per cercare di decifrare l’evoluzione della società. Potere, libertà, scelte individuali e collettive, alienazione, massa e solitudine, a volte paranoia, follia: sono questi i temi – tutti umani, tutti universali – chiamati in causa dalla cosiddetta letteratura industriale.

 

All’assalto!

«Questo paese è come una miniera umana; cova fra le più profonde ricchezze d’uomini del mondo. Noi siamo venuti a scoprire un nuovo, difficile oro, sepolto dalla natura e dalla storia». È così che si conclude la Premessa di un altro straordinario romanzo, Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri (1959). Il libro è una specie di finto reportage, mascherato da diario di uno psicologo (che somiglia molto a Ottieri) mandato in meridione da una grande azienda del nord: lì, a sud, stanno avviando un nuovo stabilimento e c’è da selezionare il personale. Lo si seleziona con un metodo nuovo per quegli anni: una «valutazione psicotecnica». A ogni candidato viene somministrato un test che valuta non solo la sua abilità al lavoro ma anche la sua attitudine alla fatica, le sue idee, le sue prospettive. Convinto della scientificità del metodo, il protagonista si trova però immerso in un mondo “altro”, dove la gente del paese vede la nuova fabbrica come una possibilità di fuga dalla miseria. I personaggi che sfilano davanti allo psicologo sono contadini poveri e poverissimi a cui non importano i test o la fabbrica o il lavoro in sé: importa mangiare. Piano piano, il protagonista capisce che il suo lavoro non è tanto selezionare del personale quanto decidere chi, grazie ai suoi test, sarà salvato dalla disperazione. La prospettiva allora cambia, e da sociologica, puramente lavorativa, diventa umana, problematica: che cosa significa, davanti alla fame, non essere il candidato perfetto per un lavoro? Cosa ne sarà di chi non supera i test? Chi sono io, si chiede lo psicologo, per decidere del futuro di questi disperati? È giusto farlo?

Il Donnarumma del titolo è il candidato più difficile: ignorante, semianalfabeta, mette lo psicologo davanti a una realtà inimmaginabile. Non vuole collaborare, non compila i questionari: «Che domanda e domanda» dice «Io debbo lavorare, io voglio faticare, io non debbo fare nessuna domanda. Qui si viene per faticare, non per scrivere». Il mondo di Donnarumma e quello del protagonista non si parlano, non si incontrano: la modernità e la fame viaggiano su due binari diversi e hanno percorsi inconciliabili.

Stefano Fasano

 

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