17/05/25 – Se me lo dovevo immaginare così, questo crocevia sudato e carico d’ansia, non ci riuscivo.
Tra 24 ore saremo davanti a tre porte: una dove perdiamo il sogno, una dove lo realizziamo, e una dove ci toccherà rimandare l’ansia di sette giorni.
Tutto in gioco, e tutti in gioco. Perché ognuno lotta per qualcosa.
Arriviamo a questo bivio come a un primo appuntamento: sudati, consapevoli, con le gambe tremolanti e il cuore pieno di speranza.
Pronti a tutto, pronti a digerire tutto. Carichi di tensione. Perché da queste parti il calcio non viene dopo, non è uno sfizio: è parte del paesaggio emotivo della città.
Non è un caso che tifosi e cittadini si chiamino allo stesso modo: napoletani.
A Milano i cittadini sono milanesi, ma i tifosi sono milanisti o interisti.
A Roma ci sono i romani, ma poi ci si divide in romanisti e laziali.
A Torino i torinesi si dividono tra granata e juventini, e molti di questi ultimi Torino ce l’hanno a 1000 km.
Napoli, invece, non ha bisogno di specificazioni: chi tifa Napoli è semplicemente napoletano.
E tra le grandi città d’Italia è l’unica ad avere una sola squadra a rappresentarla. Un solo nome, una sola identità.
Chi tifa Napoli è napoletano, anche se vive altrove, anche se non ci è nato.
I casi di chi tifa Napoli ma è totalmente dissociato dalla città sono rari, quasi folkloristici.
Per questo qui non è mai solo pallone. Le vittorie hanno un sapore diverso, e pure le sconfitte.
Non si può spiegare se non ci vivi. O se non hai la mente sgombra da pregiudizi, e non è facile.
Ci sono altre piazze calde, simili per passione e identità, certo.
Ma tra le grandi che dominano il calcio italiano, no.
Juve, Milan e Inter si dividono due terzi della tifoseria italiana: radici ovunque, appartenenze leggere.
Il legame con il territorio non è previsto.
Ti diranno che il calcio non ha a che fare con l’identità territoriale. Ma se anche il restante terzo ci avesse creduto, la Serie A sarebbe un triangolare. E invece è un girone, grazie a chi ha scelto di restare, rischiando di non vincere mai, ma godendosi ogni tratto del viaggio.
Massimo rispetto per chi tifa una squadra di un’altra città. È legittimo e comprensibile. Festeggerà di più, senza dubbio.
Ma eviti, se può, di fare lezioni di maturità calcistica, o di vantarsi dell’abitudine alla vittoria.
Perché una tifoseria si capisce quando è espressione di una comunità, con storia, cultura, vissuto.
Quando invece è sparsa come il prezzemolo e si lega per esempio a una squadra simbolo di una fabbrica d’automobili, non può esibire pedigree culturale, ma solo alzare trofei. Che poi, spesso, si autoattribuisce.
Tutto questo “paraustiello” solo per dire che Napoli è questo: memoria, radici, appartenenza.
Il Napoli, per chi lo ama, rappresenta tutto questo.
Se vi sembra che da queste parti tutto sia amplificato, non è per sindrome teatrale.
È che ci stanno dentro più cose. Fatevene una ragione.
E questo non significa che manchi razionalità.
L’emozione qui non deborda, si manifesta al momento giusto.
Non importa se si vince ogni due anni o ogni trent’anni.
Perché non esiste fallimento, né retrocessione, che possa slegare un napoletano dal Napoli o da Napoli.
Non gli fa perdere memoria, né speranza.
Non siamo gli unici a vivere così il calcio, lo so. Ed è bellissimo che altre piazze, grandi o piccole, abbiano lo stesso legame identitario.
Ma se ogni tanto ci godiamo il viaggio, se non ci accontentiamo di fare gli spettatori, se riusciamo a sentirci parte anche quando perdiamo, perdonateci.
Sì, a qualcuno questa cosa dà fastidio: l’idea che, se le cose vanno male, non ci sentiamo perdenti.
Vanno a impazzì.
Ma questo è.
E lo sarà sempre.
Perché noi siamo napoletani. Non solo nel cuore.
Anche nel nome.