sabato, Maggio 18, 2024
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Alcune riflessione su debito pubblico e sviluppo del Sud

Jean-Claude Trichet, ex Presidente della BCE, intervistato da Bloomberg, ha dichiarato: “il debito pubblico nelle economie avanzate era il 75% del PIL prima della crisi Lehman, ed è il 114% oggi.

Significa che abbiamo un indicatore che è più preoccupante di quanto fosse quello prima della grande crisi finanziaria”. Il problema non riguarda solo i paesi europei, ma pure gli Stati Uniti, ove le politiche fiscali ultra espansive degli ultimi due Presidenti hanno fatto crescere il debito pubblico di oltre il 6%.

Se guardiamo, poi, ai Paesi europei, vediamo che in Francia il quadro è ancora più complicato, posto che il debito pubblico è aumentato a causa del decremento delle entrate tributarie, tanto che il Ministro dell’Economia prevede un taglio drastico delle spese. L’analisi del fenomeno si legge in un recente articolo di Marco Buti e Marcello Messori, pubblicato da “Il Sole 24 ore”.

La situazione si fa ancora più complicata per l’Italia, considerato che, a differenza degli altri Paesi europei, abbiamo una spesa per interessi doppia (il 4% rispetto al 2% della Francia) e siamo in presenza di una crescita tendenziale del debito pubblico, che potrebbe arrivare a toccare il 139,8% rispetto al PIL.

Bisogna, ancora, tenere in conto l’uso dissennato delle risorse del PNRR, prevalentemente impiegate in attività a volte con basso livello di produttività, come non pensare ai milioni distribuiti a pioggia per gli istituti scolastici, in assenza di un preciso piano programmatico ed affidate alle sole scelte dei dirigenti o al ricorso di quel 110%, frutto della follia economica dei governi precedenti.

Desidero, però, soffermare la mia attenzione su un argomento che mi pare centrale, ma pur sempre collegato alla riduzione del debito: l’ostacolo frapposto alla crescita dalla scarsa produttività, che rappresenta un fattore di debolezza europea rispetto alle economie statunitense e cinese.

Un recente studio di Fabrizio Onida ha esaminato la situazione, individuando almeno due fattori di rischio: nei Paesi europei una quota eccessiva di risorse produttive rimangono imbrigliate in attività tecnologiche obsolete e non innovative; in Europa si registra la mancanza di una efficiente riallocazione dei fattori produttivi dopo la Pandemia, in assenza di un chiaro quadro di investimenti innovativi.

Ciò, ad esempio in Italia, si è realizzato anche in ragione degli interventi del Medio Credito Centrale – i cui effetti negativi già si sentono, facendo pesare sulle banche il rischio di credito – che hanno favorito più il “soccorso” finanziario ad imprese già in difficoltà, che la crescita della produttività.

Qualche elemento di fiducia possiamo trarre dall’analisi dell’economia meridionale, che non può di certo essere dipinta come “un deserto industriale”, considerando che se il Sud fosse uno Stato sarebbe collocato al settimo posto in settori chiave, come l’aerospazio, l’agroalimentare, l’abbigliamento e la moda e finanche nel settore farmaceutico.

Il tessuto produttivo del Sud dopo il 2023 si è andato significativamente rafforzando, con oltre quattrocentomila società di capitali (il 30% del totale italiano) e la presenza di 60 grandi imprese operanti specialmente in Campania e in Puglia. Il contributo del Mezzogiorno allo sviluppo del Paese può essere misurato anche nel settore delle sub forniture, con la partecipazione di imprese medio-piccole locali alle filiere nazionali.

E’ opportuno, allora, anche per contrastare la crescita del debito pubblico, che la “politica” aiuti lo sviluppo del turismo e la tutela ambientale al Sud, che sono fonti di continua trasformazione, così come gli altri fattori trasversali, quali la formazione, l’innovazione e la digitalizzazione. E’ opportuno, allora, abbandonando sterili polemiche pseudo-politiche, sviluppate solo nella ricerca del consenso elettorale di breve periodo (come quelle di qualche Presidente di Regione), predisporre un programma serio per l‘utilizzo non solo dei 210 miliardi di euro del PNRR, ma pure per gli investimenti che possono rafforzare la nuova politica di coesione, la crescita della portualità anche con rotte a corto raggio e lo sviluppo della ZES unica, favorendo non solo la cooperazione economica tra i Paesi europei, ma pure tra gli Stati sulle sponde del Mediterraneo.

Solo in questo modo gli elementi positivi oggi presenti nell’economia meridionale possono diventare strutturali, al fine di allineare stabilmente l’economia del Sud alla media nazionale. La scommessa è importante e difficile, ma non impossibile, se il ruolo della politica abbandona il cabaret e assurge alla “nobiltà” ad essa richiesta, specie se si tratta di valorizzare le risorse già esistenti al Sud e si vuole trasformarlo in un grande hub logistico ed energetico in un contesto geo politico in rapida evoluzione.

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