lunedì, Maggio 6, 2024
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Louison Bobet, il campione che perse con stile

 

Uno dei ricordi più significativi delle estati della mia infanzia è rappresentato dal Tour de France, che seguivo ogni pomeriggio insieme a mio nonno. A partire da sabato 1° luglio, la magia si ripeterà anche quest’anno e per noi cercatori di bellezza sarà, come sempre un balsamo per l’anima. 

Dei tanti racconti di mio nonno, da sempre appassionato di ciclismo e innamorato della bicicletta, ce n’era uno che mi colpiva in maniera particolare. Il nonno, classe 1919, amava non solo i miti della sua gioventù, a cominciare da Binda e Guerra e, ovviamente, Coppi e Bartali, ma anche un fuoriclasse francese di cui apprezzava il talento e l’umanità. Si chiamava Louison Bobet e il nonno, che aveva lavorato per tanti anni in Vaticano, descriveva come se fosse ieri le atmosfere della terribile estate del ’48, quando Antonio Pallante, un giovane siciliano con simpatie monarchiche e di destra, sparò a Togliatti, trascinando il Paese sull’orlo di una guerra civile. In quei giorni, in Francia, si correva uno dei Tour più difficili per la rappresentativa italiana (all’epoca la Grand Boucle era appannaggio delle nazionali, non delle squadre): i francesi non ci perdonavano l’ingresso in guerra al fianco di Hitler, la pugnalata alla schiena quando i nazisti erano già arrivati quasi a Parigi e il nostro essere stati convintamente fascisti per un ventennio.

Oltretutto, avevano un fenomeno indigeno da sostenere, Bobet per l’appunto, e non facevano altro che denigrare Bartali e la squadra italiana nel tentativo di metterli in difficoltà. Sembrava ormai tutto perduto. Ginettaccio, trentaquattrenne, arrancava, con un distacco apparentemente incolmabile dal fenomeno francese. Intorno a lui, la sensazione diffusa era che fosse finita un’epoca e che solo Coppi, quell’anno assente, avrebbe potuto sfidare e battere il transalpino. 

Il mito toscano riuscì, invece ad avere la meglio su un avversario di undici anni più giovane, sconfiggendo al contempo lo scetticismo dei disillusi, la malvagità dei detrattori, l’insopportabile superbia dei francesi e il talento cristallino di un avversario che avrebbe scritto, negli anni successivi, alcune fra le pagine più belle della storia del ciclismo. 

Ciò che colpisce maggiormente della parabola di Bobet è proprio quella sconfitta, l’umiltà con cui riconobbe la superiorità di Bartali e l’onestà intellettuale con la quale si inchinò al cospetto del mito, ammettendo con naturalezza che se avesse perso contro chiunque altro sarebbe impazzito per il dolore ma contro Gino no, perché lui era il più grande di tutti.

Sono già quarant’anni, caro Bobet, che un maledetto tumore ti ha strappato alla vita. Avevi appena cinquantotto anni e sarebbe stato bello poter condividere con te ancora tante avventure ed emozioni. Vogliamo ricordarti soprattutto per una delle rare volte che sei sceso dalla bicicletta sconfitto, dopo che Bartali ti aveva recuperato oltre mezz’ora di vantaggio, combattendo come un leone e trionfando spinto dalla forza della disperazione, la stessa di un’Italia povera e a un passo dal baratro. Vogliamo celebrare quella tua disfatta sportiva perché siamo certi che ogni tua vittoria sia nata da lì, da quell’atto di spontanea meraviglia, da quel riconoscimento della classe altrui, da quell’inchino alla superiorità di un rivale che ti aveva battuto ma non umiliato. Mio nonno, caro Bobet, ti amava soprattutto per questo: per aver saputo accettare la sconfitta, per aver reso omaggio al vincitore con parole non di circostanza e per aver imparato da quell’episodio a non dare mai per finito uno sfidante e a non arrenderti mai. 

Lungo le strade del Tour, ancor più che durante le tappe del Giro, il nonno ritrovava l’epica di anni ormai remoti. Nell’estate del ’98, l’ultimo Tour che seguimmo insieme, prima che se ne andasse, assistemmo alla consacrazione di Marco Pantani, capace, proprio come Coppi, Anquetil, Merckx e pochi altri, di conquistare il Giro e il Tour nello stesso anno. Quando Marco ci ha detto addio, nel modo tragico che ben conosciamo, ho capito per la prima volta quanto sia breve la distanza che separa la gloria dall’abisso. Louison Bobet ne era consapevole. Per questo ha saputo vincere dopo aver saputo perdere, affrontando entrambi i momenti con una dignità encomiabile. 

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